Diritto di cronaca. Tribunale di Milano ancora su ricostruzioni “al veleno” ed audaci accostamenti compiuti dal giornalista nella cronaca giudiziaria

I fatti non possono essere proposti al lettore dal cronista in modo da fornire una prospettazione diversa da quanto emerge dagli atti giudiziali.

Nell’ambito della cronaca giudiziaria, il giornalista che si cimenti nella ricostruzione di una vicenda determinandosi ad ampliare la fonte ufficiale,  per il Tribunale di Milano (sent. n. 3555/09) non deve ingenerare nel  lettore la convinzione che i fatti possano essere letti in maniera diversa da quanto emerge dal contenuto dell’accertamento giudiziario. Tanto meno, il  cronista dovrebbe coinvolgere individui estranei al procedimento. Nella sentenza in esame, il giudice di primo grado ha condannato editore, direttore responsabile e giornalista autore della pubblicazione in solido tra loro, al risarcimento dei danni patiti da parte attrice per essere stata  citata polemicamente in un articolo ritenuto diffamatorio nell’ambito di una  vicenda nella quale si indagava sulla disinvolta convalida della propria  "chiamata per chiara fama" all’insegnamento presso un importante ateneo nazionale. Il docente, infatti, pur non essendo coinvolto nell’accertamento  giudiziario, è stato presentato dal giornalista convenuto in giudizio con la  ammiccante qualifica di "amico" di influenti personalità accademiche promotrici dell’iniziativa che lo ha interessato, lasciando intendere un illegittimo favoritismo. Invero, una tale conclusione sarebbe stata agevolata dal tenore prettamente critico e polemico con cui il cronista avrebbe riferito sul fascicolo aperto dalla Procura procedente. In  proposito – si cita testualmente la sentenza – "(…) la portata lesiva  dell’onore è da riconoscersi nell’articolo come complessivamente costruito e pur ricorrendo il requisito della pertinenza con riferimento alla notizia  delle indagini in corso, l’accostamento operato tra i fatti, veri in sé, oltrepassa il limite della continenza e della verità generando  l’insinuazione diffamante" (Cfr. Trib. Milano, sez I civile, n. 3555/09, in  www.personaedanno.it). Il magistrato meneghino, dunque, segue la traccia di taluna giurisprudenza  di legittimità ermeneuticamente impegnata a focalizzare l’indagine sul  carattere diffamatorio di uno scritto giornalistico non tanto e non solo  sulla verità delle notizie diffuse limitandosi alla sola analisi testuale  dello scritto, ma invece considerando tutti gli ulteriori elementi – come ad  esempio i titoli, l’occhiello, le fotografie, gli accostamenti, le figure  retoriche – che formano il contesto della comunicazione e che possono  arricchirla di significati ulteriori, lesivi dell’altrui onore o reputazione  (v., per tutte, Cass. civ., Sez. III, n. 25157 del 2008). A ben vedere, però, a sostegno della tesi antitetica relativa all’intervento  dell’esimente del diritto di critica nella cronaca giornalistica, vengono in  soccorso alcuni tra i più recenti pronunciamenti. Iniziando la ricerca dalle  giurisdizioni inferiori, è lo stesso Tribunale di Milano a riconoscere, nell’ambito di una controversia passata alla ribalta della cronaca per la notorietà dei personaggi coinvolti, come causa di giustificazione del reato di cui all’art. 595 c.p. la polemica ricostruzione dei fatti alla stregua di legittimo esercizio del diritto di cronaca (v. Tribunale di Milano, 27 novembre 2007. Caselli e Lo Forte c. Jannuzzi e Belpietro per un caso di diffamazione a mezzo stampa ritenuto perpetrato in un articolo critico riguardo alla gestione palermitana dei pentiti di mafia, sentenza che – anche da queste pagine – ha avuto una grande risonanza). Ancora, la Corte  d’Appello del capoluogo lombardo ha ritenuto – in ben altra circostanza – non integrato il reato di diffamazione a mezzo stampa perchè "fatti o comportamenti necessariamente frutto di una visione soggettiva e difficilmente riconducibili al criterio della necessità della verità del fatto in quanto esercizio del diritto di critica (…), comportano una valutazione da parte del lettore e dell’interprete che può esprimersi in termini di condivisibilità o meno delle tesi affermate, non già sotto il profilo della verità delle medesime" (cfr. Corte Appello Milano, sent. n. 2156/2009). Ulteriormente, guardando verso Piazza Cavour, i giudici si sono ultimamente mostrati particolarmente avvezzi ad interpretare la scriminante fornita dall’art. 21 Cost. in maniera decisamente estensiva. Probabilmente, la metafora del "cane da guardia" identificativa del ruolo che si vorrebbe far ricoprire gli organi di stampa nello Stato di Diritto, considerazione che ha nel tempo ricevuto l’avallo anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), ha contribuito ad una evoluzione della causa di giustificazione qui proposta. Sommariamente, la Corte di Cassazione ha avuto modo di sostenere che "(…) la critica costituisce attività speculativa che non può pretendersi asettica e fedele riproposizione degli accadimenti reali ma, per sua stessa natura, consiste nella rappresentazione critica di questi ultimi e, dunque, in una elaborazione che conduce ad un giudizio che, in quanto tale, non può essere rigorosamente obiettivo e imparziale, siccome espressione del retroterra culturale e politico di chi lo formula. (…) La critica non perde il suo carattere di esercizio del diritto di manifestare liberamente il pensiero nei confronti del potere politico, se diretta contro  trasgressioni, contingenti o abitudinarie, da parte di detentori di tale potere, qualunque sia il campo della trasgressione" (cfr. Cass. pen., Sez. V, n. 40408/2009, in www.studiocataldi.it); ancora, il Supremo Collegio giunge addirittura a legittimare, proprio per effetto di una ricostruzione basata su fatti veri, l’accusa rivolta – in pubblico ed attraverso i mezzi d’informazione – da un cittadino ad un membro delle istituzioni tacciato di aver commesso un reato la cui causa si rinviene nella sola argomentazione logica seguita dallo stesso, valutando del tutto lecita l’indignazione "(…) contro un modo di gestire il potere politico-amministrativo, in cui prevalgono gli interessi personali, indipendentemente dall’interesse generale di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione…" (cfr. Cass. pen, Sez. V, n. 41767/2009). Proprio in quest’ultimo caso, la motivazione fornita appare assolutamente calzante al caso in esame. Infine, in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, qualora la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell’autore dello scritto in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può essere condotta sulla base di criteri solo formali, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.). Tale bilanciamento è ravvisabile nella pertinenza della critica all’interesse dell’opinione pubblica verso la conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto, che costituisce, assieme alla continenza, requisito per l’esimente dell’esercizio del diritto di critica (v. Cass. civ., Sez. III, n. 25 del 2009). Concludendo, la gestione del diritto di cronaca e di critica alla stregua di esimenti della diffamazione a mezzo stampa, viene in tutti questi casi utilizzata in circostanze forse anche più gravi e controverse dell’arbitrario accostamento di fatti veri al margine di una vicenda giudiziaria, recuperati grazie al senso investigativo del giornalista. Lungi dal considerare l’esercizio della professione un vero e proprio salvacondotto, ci appare miope ed eccessiva la lettura fornita dal Tribunale di Milano nella ricordata sent. 3555/09. Semplicemente, laddove si voglia riconoscere ai media il ruolo di controllori del potere costituito e mezzo attraverso il quale i cittadini possano esercitare un controllo sui metodi di gestione delle loro istituzioni, le notizie devono essere raccontate in tutta serenità e, se vere ed adeguatamente verificate, meritevoli di appendici polemiche. Il reato di diffamazione, per potersi integrare, necessita – per giurisprudenza costante – del requisito della gratuità della lesione di beni giuridici quali onore e reputazione, ovvero offese rivolte senza motivo e per il solo – subdolo – piacere denigratorio nei confronti di una terza persona. (Stefano Cionini per NL)

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