Scorporo Telecom – Gentiloni: una mossa solo per ragioni finanziarie

Intervista tratta da “La Stampa”


«Quindici mesi fa, quando eravamo all’opposizione, siamo stati convocati dal vertice di Telecom per una presentazione delle ragioni industriali che spingevano il gruppo ad adottare il modello “one company”, integrando telefonia fissa e mobile. Da quel momento non mi sembra che nel mondo si sia andati in senso contrario alla convergenza tra telefoni fissi e mobili. Anzi».

Ora lei, ministro Paolo Gentiloni, è nel governo come responsabile delle Comunicazioni. E il presidente di Telecom ha appena annunciato lo scorporo della rete e dei telefonini. Come giudica l’operazione?

«Non è un caso se il presidente del Consiglio ha parlato di sorpresa e sconcerto. Nei contatti ripetuti con i vertici Telecom nelle scorse settimane si era parlato del possibile accordo con la News Corporation di Rupert Murdoch. Di quello che è stato deciso dal consiglio Telecom non siamo stati informati preventivamente, il che – come è ovvio – è diritto di qualsiasi impresa privata. Ma vorremo capire quali sono i capitoli successivi di questa storia, che al momento presenta qualche opportunità ma anche qualche rischio».

Quali opportunità e quali rischi?

«Ci sono singoli pezzi di questo disegno che hanno un forte significato. Come la creazione di una società autonoma per la rete locale, che va incontro agli auspici del regolatore, o alla prospettiva di una “media company”. Ma le ragioni che stanno dietro queste mosse non sono comunque tali da giustificare il rischio che l’industria italiana scompaia dalle reti di telefonia mobile. Questo è un settore dove abbiamo il mercato più avanzato del mondo. E non possiamo non esserci ora che mobile vuol dire anche tv e banda larga».

Ecco il punto. Tronchetti non l’ha detto, ma il mercato scommette che Tim sarà ceduta…

«Al momento prendiamo atto che il vertice di Telecom dice che la questione non è all’ordine del giorno. Però siamo consapevoli che la decisione di lunedì crea le premesse societarie per sviluppi del genere. Mi limito a dire che la situazione attuale dipende in parte da una privatizzazione a debito, come quella fatta a suo tempo di Telecom. Ma se gli azionisti difendono loro interessi il governo deve difendere gli interessi generali del paese, come quello di conservare un’industria in un settore d’avanguardia come la telefonia mobile. L’uscita da questo settore non sarebbe giustificabile in alcun modo».

Il presidente di Telecom attribuisce in sostanza la decisione di separare nuovamente fisso e mobile a un approccio troppo occhiuto del regolatore italiano ed europeo. Condivide?

«Penso che l’Autorità abbia svolto i compiti che la legge le attribuisce. Le ragioni di fondo della scelta di Telecom hanno a che fare con il mondo della finanza più che con con quello della regolazione».

E vede motivazioni industriali dietro la svolta?

«Io capisco le ragioni degli azionisti, ma lo ripeto: mi sembrano ragioni finanziarie».

E ora? Se muovete contro una possibile vendita di Tim agli stranieri diventate interventisti, se non muovete sarete quelli che hanno perso un altro pezzo di sistema…

«Noi non organizziamo cordate e non interveniamo sulle scelte delle imprese. Però abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di indicare gli interessi generali del paese».

Potreste usare la golden share che lo Stato ancora ha su Telecom. Molti nella maggioranza la invocano.

«Io, invece, in questo stadio considero imprudente parlare in qualsiasi senso di golden share. Per ora siamo solo a conoscenza della decisione di costituire due società autonome. Non abbiamo avuto incontri di alcun genere su questo tema con i vertici Telecom. L’argomento della golden share non va brandito, ma studiato al momento opportuno».

E la rete? Si era parlato di un intervento di Cassa depositi e prestiti. Potrebbe entrare capitale pubblico?

«L’ingresso della Cassa non è all’ordine del giorno. E io sono molto diffidente sulla possibilità di risolvere i problemi che abbiamo con forti interventi di natura pubblica. Sarebbe un errore».

Ministro, la Rai. Dal consiglio di ieri ancora nessuna decisione sulle nomine. Stamattina si replica, ma l’impasse sembra assicurata…

«La mia posizione è nota, anche se può essere considerata falsamente ingenua. Serve la riforma del sistema, alla quale stiamo lavorando, ma in attesa del paradiso futuro il quadro attuale non può essere lo schermo dietro il quale si celano i peggiori peccati presenti. Aspettando la riforma il comportamento virtuoso che il governo può e deve adottare è dare il massimo di autonomia all’attuale cda della Rai».

Il presidente della Camera Fausto Bertinotti, però, pare essere in linea con il Polo: prima la Commissione di Vigilanza e poi il cda Rai.

«Io sono convinto che il governo debba stare fuori dalle decisioni sulle nomine e dalla loro tempistica. Certo, il rapporto con la Vigilanza è importante, ma è il cda che deve decidere anche su questo punto. Meglio che il governo stia fuori, meglio che tutti facciano un passo indietro riducendo le dichiarazioni e le pressioni sul consiglio d’amministrazione».

Ma la composizione attuale del cda Rai, con il rappresentante del Tesoro Angelo Maria Petroni, nominato in quota Polo, pare destinata al conflitto permanente…

«Esiste un precedente di un consiglio di diverso orientamento rispetto a quello della maggioranza parlamentare: era il consiglio presieduto da Roberto Zaccaria nei suoi ultimi mesi».

Questo è un caso analogo?

«Potrebbe esserlo. Ma con un’anomalia in più, questa senza precedenti, ossia un vertice aziendale che sia programmaticamente in minoranza in cda. Se così fosse, se si dimostrasse che un consigliere è espressione di parte e non del Tesoro, questo significherebbe che la Rai è diventata ingestibile e allora il ministro Padoa-Schioppa non potrebbe che intervenire per affrontare l’anomalia».

Intervista di Francesco Manacorda per “La Stampa”
Roma 13 settembre 2006

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